DONNE IN MUSICA
Cultura, società e pentagramma
Una damnatio memoriae degna di miglior causa potrebbe definirsi il silenzio che per secoli ha avvolto il nome di quelle compositrici tutte protese a contendere la palma ai loro colleghi maschi; un silenzio che permane ancora sostanzialmente nei programmi dei concerti e finanche nei manuali di storia della musica, dove perlopiù non se ne trova che una menzione a piè di pagina, nel migliore dei casi.
Non fa eccezione Isabella Leonarda, donna tanto virtuosa nella musica quanto nella vita, poiché fu monaca orsolina fin dall’età di sedici anni, ricoprendo tutti i ruoli più importanti all’interno del convento in cui visse per quasi settant’anni. Un convento che doveva risuonare spesso di armoniosi concenti, se la madre superiora (tale fu il ruolo, fra gli altri, che ricoprì) trovò il tempo di scrivere più di duecento composizioni e pubblicare venti opere a stampa, fino a diventare la più prolifica compositrice del XVII secolo. Era nata a Novara, da un’illustre e nobile famiglia, nel 1620, quando ancora il melodramma era in fasce e la musica strumentale cominciava la sua lunga e inarrestabile ascesa. Anche tra le anguste mura di un convento Isabella riuscì a percepire distintamente gli echi di quel nuovo corso che Monteverdi chiamò la seconda pratica: non più solo i rigidi precetti del contrappunto tardo-rinascimentale, ma anche il libero estro della melodia incardinata al basso continuo, pur nel libero gioco delle parti che ancora dialogano, si inseguono e si intrecciano.
Così, nell’unica opera strumentale della Leonarda si ritrovano tanto la cultura polifonica, intrisa di style vetus, quanto le nuove conquiste nel campo strumentale: pubblicata a Bologna nel 1693, l’opera XVI racchiude le esperienze in àmbito sonatistico della magistra musicae del convento novarese, risentendo perfino delle influenze del fulgido astro Arcangelo Corelli, che aveva già pubblicato tutte le sue sonate a tre. Ne consegue un linguaggio personale fortemente espressivo, scevro da schemi preconcetti, dove la fantasia si libera senza vincoli di scuola o rigide osservanze precettistiche: “la sua sintassi armonica è irrequieta e molto spesso poco incline all’osservanza delle regole”, hanno scritto di lei, rilevando “il frequente impiego di progressioni modulanti nel fluire continuo dell’imitazione delle parti”.
Se la Leonarda era “la Musa novarese”, secondo quanto scrive uno storico locale, Elisabeth Claude Jacquet de La Guerre (1665-1729) fu definita “la meraviglia del nostro secolo”, che era addirittura il secolo del Re Sole. Visse e fu educata a corte fin da bambina, sotto la protezione della contessa Montespan, una delle più abili e spregiudicate favorite del re. Fu tenuta in gran conto da Luigi XIV, estasiato dalle sue esibizioni al cembalo, e nessun altro musicista ebbe tanti onori e tanta rinomanza in Francia dai tempi di Couperin: un contrasto più forte non potrebbe esserci tra il silenzio, la riservatezza di un chiostro monacale e il pettegolo mormorio di una corte, splendida certo per antonomasia, ma intrisa di veleni, pervasa di rivalità e dominata delle carriere di arrampicatori sociali, non di rado di sesso femminile. Se dunque Isabella gareggiava con se stessa per la maggior gloria di Dio, Elisabeth gareggiava con i maschi per compiacere il Re Sole, il dio in terra: “Ai grandi musicisti ho conteso la palma” è scritto sopra un medaglione che la ritrae in effigie, coniato all’indomani della sua morte. E con i colleghi maschi sembra voler gareggiare anche quando pubblica nel 1707 una raccolta di Sonate per violino e cembalo. Il genere era ancora poco frequentato in Francia, che aveva visto invece un’abbondante produzione di sonate a tre, e il terreno doveva ancora essere dissodato (da tre anni soltanto erano apparse le prime raccolte a stampa di sonate per violino e basso), soprattutto perché il violino, contrariamente a quello che potremmo credere oggi, era uno strumento tutt’altro che apprezzato dall’élite francese e dalla nobiltà di inizio secolo, che gli preferivano il liuto o il clavicembalo: il violino pagava lo scotto delle sue origini popolari, e alla fine del Seicento apostrofare un nobile con la parola “violiniste” era un insulto che poteva essere lavato col sangue.
Ma la La Guerre non si cura delle convenzioni: preceduta di poco dall’italiano di origine, ma francese di adozione, Mascitti, scrive e pubblica sonate per violino senza avalli illustri come aveva il suo collega, che era un allievo di Corelli – il dio in terra della musica strumentale – ma indulgendo allo stile italiano anche lei e prefigurando così quella feroce contesa che di lì a poco scoppierà tra i fautori dell’opera italiana e i difensori sciovinisti della musica francese: ma in fondo Lully, il fondatore dell’opera francese, non era un Lulli fiorentino che aveva fatto fortuna all’estero? E proprio all’ombra di Lully, il Mercure galant – un periodico che oggi potremmo definire un magazine – fa pronunciare una sorta di proclamazione di primato da attribuirsi alla La Guerre, “la première musicienne du monde”; e non aveva che ventisei anni. Era il 1691 e di lì a poco usciranno le sonate della Leonarda.
Sullo stesso giornale, che si occupava con zelo del talento di Elisabeth fin dalle sue prime apparizioni pubbliche, uscì una recensione, allorché fu dato alle stampe il volume che, tra le altre composizioni, conteneva le sue sei sonate per violino e clavicembalo:
“Esse (le sonate) dimostrano che la La Guerre ha una grande familiarità non solo con il clavicembalo, ma anche con il violino. Sebbene queste sonate siano assolutamente perfette nel loro genere, esse hanno tuttavia diviso gli estimatori: alcuni sono per la naturalezza che domina nella seconda, nella terza e nella quarta, gli altri sembrano più toccati dalla nobiltà che regna nella prima, nella quinta e nella sesta. Ma tutte possono essere di grande utilità a coloro che imparano la Musica”.
Come si vede, la La Guerre era uscita dall’angusto ruolo di semplice strumentista per diventare un modello compositivo: che sia questa una delle ragioni che l’hanno condannata all’ oblio?
Ottant’anni separano la nascita della parigina Elisabeth da quella della veneziana Maddalena Lombardini Sirmen (1745-1818): altra temperie, storica, culturale, e quel che più importa qui, musicale. Diverse anche le coordinate geografiche, che si snodano attraverso la Venezia dei conservatori e degli ospedali, dove ci si prendeva cura delle fanciulle orfane anche attraverso una compiuta educazione musicale, che spesso ne faceva delle vere e proprie virtuose del canto o dello strumento. Le cronache dell’epoca narrano di visitatori estasiati dai concerti che venivano dati da queste giovani, infervorate sicuramente più dalla musica che dalla pietà religiosa. Il loro pigmalione più celebre fu quell’Antonio Vivaldi che scrisse appositamente per loro molti dei suoi concerti.
E dall’Ospedale dei Mendicanti uscì anche la nostra Lombardini, così ben attrezzata e agguerrita da conquistarsi l’attenzione e le cure didattiche del più celebre violinista dell’epoca, Giuseppe Tartini, il quale le indirizzò una lettera che rimane ancora oggi un prezioso documento sulla prassi esecutiva dell’epoca e sulla didattica del violino. Donna di carattere e grande personalità, non solo musicale, seppe gestire oculatamente i suoi talenti, anche canori, al punto da diventare impresaria di se stessa, raccogliendo una considerevole fortuna, nonostante la morte del marito, viaggiando prima a Londra, poi a Parigi, dove si esibì con successo anche come cantante, e infine a S. Pietroburgo. Riuscì a sopravvivere anche ai rovesci economici che comportò l’invasione austriaca di Venezia.
Tre donne, tre destini, tre diverse fortune: la musica al femminile è una vicenda ancora tutta da scrivere, che potrebbe certamente costituire un capitolo di storia della condizione femminile, ma non solo. In attesa di questo fortunato evento possiamo ascoltare di nuovo dopo secoli di silenzio la loro musica.
Gabriele Raspanti
Harmonicus Concentus