“Lascia ch’io pianga”
ovvero l’eloquenza delle lacrime
Le mie parole sono le mie lacrime.
Samuel Beckett
Le lacrime parlano una lingua silenziosa, ma non per questo meno assordante, quando il sale si scioglie sulle ferite e le purifica come una fiamma.
Grumi di dolore, di nostalgia, di rimpianto, esse sono il sangue distillato delle passioni e dei patimenti che affiorano senza tregua dal profondo del cuore. Così la storia delle lacrime coincide con la storia dell’uomo.
E della poesia. Fin dal suo inizio sono lacrime antiche quelle che nell’Iliade e nell’Odissea bagnano ogni momento le guance dei protagonisti, perché nei poemi omerici gli eroi piangono, e lo fanno senza ritegno: Achille, Menelao, Agamennone, Aiace. Tutti si abbandonano al più naturale e immediato tra gli sfoghi, quando il dolore, un ricordo triste o felice li sovrasta e trova un varco dal profondo del cuore.
Ma piange soprattutto il più famoso tra gli eroi omerici: Ulisse, così umano da versare una lacrima perfino mentre accarezza Argo, il cane che lo aveva atteso per vent’anni e che ora muore ai suoi piedi dopo averlo riconosciuto.
Provvisorio, ma urgente sollievo alle più dolorose cure dell’anima, il pianto ha trovato un sicuro e perpetuo palcoscenico nell’arte, prima ancora che nella religione e nella filosofia.
Ma il territorio privilegiato dove può dispiegarsi in ogni sua possibile declinazione è la musica. Qui le passioni violente, gli affetti delicati, lo struggimento malinconico si esercitano nel compiere il loro ufficio di protagonisti della scena attraverso il prisma ottico di una lacrima, sapientemente profusa dalla perizia del compositore.
Canto e parola si intrecciano in un ancestrale connubio che sprofonda nella liquidità di una stilla di pianto, penetrando fino ai recessi del cuore, per riemergere poi, salvifica e pura.
Sarà il Barocco a trarne la più efficace e spietata consonanza musicale, muovendo tutte le pedine di un gioco dove i singulti e le convulsioni dei personaggi contagiano un pubblico che anela all’estatica contemplazione del proprio io.
Fra le pieghe più sinuose del canto, la parola si dispiega con forza, in una complice sinergia con la musica, fino inebriare l’ascoltatore e a “saziarlo di lacrime come fossero vino”, per citare un’antica tavoletta d’argilla vecchia di tre millenni.
Trasversale nella musica come nella vita, il pianto coinvolge l’umanità intera sulla scena, privilegiando, com’ è naturale, l’universo femminile nelle sue molteplici sfumature. Regine, ninfe, maghe: il campionario è vasto.
Ma nel nostro concerto piange persino un filosofo, che la tradizione letteraria e iconografica rappresenta sempre in lacrime, affranto dallo spettacolo della miseria umana e della irrimediabile infelicità che ci affligge. Ma qui Eraclito piangerà anche per amore: una nemesi portata a compimento da una compositrice, Barbara Strozzi, che ha voluto trasformare le lacrime così metafisiche del filosofo di Efeso in pianto umanamente amoroso e dolente.
La palma del lamento più celebre della musica barocca spetta però a Henry Purcell, che ha dato voce a Didone, la celebre e infelice regina di Tiro, colpevole solo di aver amato un uomo, Enea, che la abbandonerà sospinto dall’urgenza di fondare Roma. Così voleva il Fato.
Amore e morte, dunque: “Ricordati di me, ma dimentica il mio destino”, canta alla sorella quando sta per togliersi la vita, non prima di aver inondato il petto di lacrime, come ci ricorda Virgilio.
Che dire poi della crudele Alcina, la maga che aveva fatto prigioniero nella sua isola incantata Ruggero? I suoi sortilegi non sono bastati a trattenere l’eroe cristiano, e ora che il Bene ha vinto sul Male prorompe in un rabbioso e irato pianto, in cui Händel riesce a trasfondere la sua sapiente ars rethorica musicale, tutta giocata sulle tonalità contrastanti dell’animo femminile: “Traditore!”, grida Alcina al suo amato, per poi subito dopo cedere al pathos: “T’amo tanto”.
Tesa, vibrante e improntata al virtuosismo belcantistico è l’aria di Vivaldi, in cui il protagonista, sconfortato per la crudeltà del destino tenta le corde della disperazione: “Destino avaro, perché costei lasso perdei, lungo ed amaro pianto versai”.
Si potrebbe davvero riscrivere la storia della musica in chiave lacrimevole, seguendo le tracce delle stille di pianto a cui i musicisti hanno dato un suono. È un pianto di dolore, di rabbia, di gioia, di commozione, ma soprattutto è un pianto d’amore, proprio come nella nostra vita. E quasi sempre si tratta di un amore infelice, perché in musica, ma forse anche un po’ nella vita, l’amore felice non fa notizia.